Nell’epoca dell'iperprestazionismo, ormai, abbiamo sempre meno spazio per fermarci un attimo e rispettare i tempi, le attese. E scegliamo, in forme discutibili, di ritagliarci ancor meno tempo per elaborare, pensare. Rivolgersi all’AI, ad esempio, per colmare lacune umane, è un’inevitabile conseguenza. Anche la scrittura di un articolo diviene una vera e propria sfida per allontanarsi dalle soluzioni semplici e comode che spengono, però, tutto quello che abbiamo guadagnato in migliaia di anni. E come adulti, abbiamo qualche responsabilità.
Ho la fortuna di rappresentare una generazione di mezzo che corre il rischio di trovarsi tra l’incudine analogica che è stata ed il martello digitale che seguirà, perché, si sa, tra l’incudine ed il martello prendi mazzate da entrambi.
Un mestiere complesso come il mio che si serve necessariamente dell’esperienza clinica, regala esperienze fondamentali per il proprio percorso: mi ritengo fortunato e sono grato alle possibilità di sperimentare emozioni autentiche e capaci di costruire interazioni che diventano relazioni nonché strumento di cura. Di conseguenza, spazi riflessivi dove accogliere, ascoltare e condividere diventano cruciali per ogni individuo. Anche per questa ragione, in quasi ogni latitudine è stato ormai sdoganato ogni medievale pregiudizio verso la nostra figura professionale: il resto, quindi, è mero retaggio.
Un’esperienza importantissima quella da me vissuta alla Cooperativa Sociale “Padre Pio” di Cerignola, a cui va tutta la mia gratitudine per avermi donato non solo la possibilità di sentirmi veramente a casa, ma soprattutto di rimodulare il mio personale parere sul meraviglioso mondo del terzo settore. Due stagioni meravigliose dove ho potuto costruire relazioni autentiche.
E se le esperienze sono fonte di apprendimento, stavolta è stata davvero indispensabile per far comprendere non solo l’importanza della mia figura professionale ma soprattutto per autorizzarsi ad essere liberamente se stessi. E non è un caso se il gomitolo utilizzato per i circle time insieme ai ragazzi, assume i toni del filo rosso che lega ogni cosa, dove chi si lega simmetricamente agli altri, si diverte davvero. Ed io, al centro ci sono tornato dopo 25 anni: ero un bambino di periferia che giocava a calcio e che soffriva in silenzio perché non c’era mai la taglia giusta della tuta del Real Vico.
Siamo partiti dal caro vecchio disegno…perché nell’epoca delle batterie standardizzate e giudicanti c’è poco spazio per immaginare e immaginarsi. All’interno di quel laboratorio, infatti, grandi e piccoli hanno dato vita e voce a quel mago che è dentro di noi! E le vignette e le lettere de “La Porta della Felicità” sono state davvero incredibili: uno strumento semplice e potente per rendere inclusivo il concetto di inclusione. Dopotutto, parlare di senso di comunità è traducibile in questi termini: una visione ed una meta comuni, dove ognuno, con le proprie possibilità può sentirsi libero ed accolto senza giudizio, senza il bollo del risultato da ottenere ad ogni costo.
Successivamente, all’interno dei colloqui individuali con i ragazzi c’è stata la possibilità di generare quella fiducia che in termini aulici chiameremmo alleanza terapeutica.
Ho accolto le storie e le vicissitudini con l’atteggiamento di chi, attraverso loro, poteva mettere mano alla propria parte preadolescenziale. Si dice spesso che i ragazzi di oggi siano diversi da quelli di ieri e dell’altro ieri: credo che i bisogni siano più o meno sempre gli stessi, evoluti e figli del tempo, ma più o meno uguali a quelli degli adulti di oggi, bacchettoni frustrati come non mai. Perché la necessità di avere un faro ed un porto sicuro per orientare la propria personale nave rimane la stessa. Forse il problema sta nelle lampadine del faro e nella confusione del porto, ed è stato bellissimo condividere queste difficoltà con le mamme coinvolte nelle attività gruppali con la collega Rosaria Di Modugno.
Mi chiedo, infatti, se questa possiamo definirla come l’epoca degli spazi riflessivi da ricercare in ogni luogo...anche perché i tempi dei salotti familiari intergenerazionali e culturalmente definiti (le mille sedie sui marciapiedi estivi ed i diversi momenti di condivisione), subiscono un pesante ricambio generazionale. In questi termini, senza le dovute narrazioni da tramandare, siamo persi in mezzo al mare e rimandiamo alle nuove generazioni questo sentimento di perdizione.
Aver fornito uno spazio di questo genere alle famiglie è stato illuminante: le idee semplici e calde, come sempre, vincono.
Anche per questa ragione il gomitolo è stata una vera e propria bomba di lana potentissima, in un certo senso artigianale come quelle di Capodanno che rischiano di fare gravissimi danni quando vengono scimmiottate con scarsissimi risultati.
Ed è doveroso dirlo, soprattutto in periodi a rischio bellico come quelli che stiamo vivendo.
Il circle time, dunque, vince perché i ragazzi si sentono liberi di esprimersi e di mettere, all’interno del gruppo, le loro esperienze ed i loro episodi. Compresi quelli traumatici.
Ognuno con i suoi tempi. Come sempre.
Parlare con gli adolescenti di Amore, Amicizia, Rispetto, Bullismo, Violenza, Emozioni…si può.
Conoscere ed avvicinarsi a ciascuno di loro, è possibile.
Il circle time, vince anche con gli adulti nelle supervisioni d’equipe.
Perché quando stiamo bene insieme dobbiamo dircelo.
Perché l’esperienza di ascolto condiviso rimane la migliore cassa di risonanza emotiva.
Perché la generosità rimane un muscolo da allenare.
Le esperienze professionali devono misurarsi in termini relazionali.
I parametri devono essere sempre l’umanità, le emozioni incontrate e la connessione autentica.
Così, una comunità, una città, un angolo complesso di mondo, cresce.






